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Roberto Mahlab
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Inserito - 07/07/2005 :  17:01:58  Mostra Profilo  Visita la Homepage di Roberto Mahlab Invia un Messaggio Privato a Roberto Mahlab

I

Il capitano guidò con perizia il veliero tra le giunche ancorate nell'affollato porto dell'isola del mar cinese meridionale.
"Accosta, accosta", gridava in un inglese approssimato un ometto dalla pelle scura ricoperto da una leggera veste bianca, mentre correva avanti e indietro a piedi nudi sul molo di legno, io raccolsi una cima e gliela gettai. Con maestria e forza insospettabile la avvolse attorno ad un tornio e il lungo viaggio del veliero dall'Europa ebbe finalmente una pausa.
Rivolsi ai marinai la raccomandazione di aver cura della nave che di lì a pochi giorni sarebbe stata caricata con merci pregiate che avrei trasportato verso il vecchio continente e balzai agilmente sul selciato, era esaltante assaporare l'aria della terra dopo settimane di mare in cui avevo potuto occupare il tempo solo a leggere o studiare o scrutare l'orizzonte.

Mi avvinceva il contrasto che quel panorama offriva agli occhi, le capanne di bambù e dai tetti di paglia dei pescatori che parevano dover crollare al primo soffio di vento e invece resistevano alle tempeste tropicali, le bianche costruzioni coloniali dai porticati e verande colonnati, sedi dell'amministrazione e prime vestigia di banche, ospedali e scuole.

Mi incamminai verso l'interno, tra due fila di povere case di mattoni e persiane semiaperte da cui si udivano i discorsi ad alta voce delle famiglie nelle tante tonalità delle roche lingue del posto, un bambino avvolto in pochi panni mi fissava da un angolo ricoperto da cartoni e rifiuti, un dito in bocca, decine di operai cinesi e di varie etnie orientali lavoravano a torso nudo scavando le fondamenta di un nuovo edificio, una carrozza a cavalli si faceva largo con fatica sulla strada non asfaltata, cercando di non travolgere la bancarelle che offrivano le merci più varie, stoffe e spiedi di cibi che la mia mente rifiutò di catalogare. Un anziano era intento a cesellare una figura di peltro, mi avvicinai al suo sgabello e rimasi senza fiato, era un'opera d'arte, un guerriero medioevale cinese, pareva intarsiato del colore dell'oro, ma un'ondata di folla intenta a spostarsi per ogni dove mi trascinò via, mi ripromisi di tornare appena avessi terminato gli affari che mi avevano condotto sull'isola.

II

Il mio caro e vecchio amico Maestro Ho mi aveva descritto nelle sue lettere la locanda dove avrei trovato rifugio per le notti, doveva essere tra il negozio del sarto Tong Cheong e la farmacia di John Little, un emigrante inglese che si raccontava fosse approdato sull'isola a causa di trascorsi poco sobri. La riconobbi dal caratteristico tetto concavo e spiovente, aveva la forma quadrata e i muri erano lindi e spogli, sapevo di non poter contare su un lussuoso albergo della City londinese, ma ero abituato a ben altro nel corso dei miei avventurosi viaggi e tutto assaporavo con il gusto di poter mescolarmi e comprendere. L'entrata era nascosta da una tenda di asticelle che oscillava all'aria emettendo trilli dai campanelli attaccati alle estremità quando qualcuno la attraversava. La scostai e rimasi colpito da un salone che da fuori non si poteva immaginare, rotondi tavoli di tek e eleganti sedie imbottite, un pianoforte e dipinti alle pareti ben imbiancate, tondi lampadari che pendevano dal soffitto, tra specchi incorniciati e larghe portefinestre che si aprivano su un grande terrazzo teso sulle prime propaggini della giungla illuminate dal sole e rigogliose di alberi di palma, una vera oasi di serenità.

La giovane donna era seduta china su dei fogli, intenta a fare conti, il viso perplesso e serio, una lunga gonna e una camicetta di batik blu con ricami dorati e ai piedi delicati sandali chiari, la pelle appena ambrata e i capelli neri raccolti sul capo. Si accorse di me e levando lo sguardo sorrise con gli occhi e rimasi folgorato, il suo viso parve illuminarsi e avvertii un calore sincero che mi circondò, mi inchinai in segno di saluto e mi presentai :"Mi chiamo Edmond Strauss, il mercante, Maestro Ho mi ha indicato la tua locanda per trascorrere il tempo di riposo nella mia permanenza". Si levò in piedi e notai che era piccola e perfettamente proporzionata, mi indicò una comoda poltrona e mi fece segno di accomodarmi. Corse via in una stanza vicina e poi riemerse con un panno caldo che mi poggiò sulla fronte, da un vassoio raccolse due gigli profumati e li pose sul tavolino vicino e poi mi porse un bicchiere intarsiato e colmo di una bevanda trasparente e odorosa, uno dei the’ più buoni che io ricordi di aver mai assaggiato. "Maestro Ho mi ha avvertito del tuo arrivo, rimani comodo, la tua stanza e' già pronta per quando vorrai". Mi si fece a fianco un ragazzo dalla carnagione indiana, con un turbante in testa, si mise dietro la mia poltrona e attese rispettoso con in mano le chiavi.
La donna si inchinò per accomiatarsi, il suo volto raggiante si richiuse nella serietà appena si risedette a continuare il lavoro sulle carte, come un sole si trasforma in luna.

III

Maestro Ho mandò a prendermi una piccola carrozza con due enormi ruote a raggi e trainata da un robusto cinese che con perizia e sorprendente forza trascinò il traballante veicolo a velocità talmente sostenuta che fui contento di non comprendere gli epiteti che ci lanciavano i passanti che dovevano scostarsi, alcuni con sulla schiena pesanti sacchi di tela e altri che mantenevano in precario equilibrio sulle spalle una lunga asta con appese delle ceste di cibo. La grande casa di Maestro Ho era all’inizio di una collina e il fortunoso mezzo mi scaricò presso un cancello dipinto di bianco, lo stesso colore dell’edificio che si stagliava al di là di un fiorito parco. Il profumo dell’erba appena tagliata era inebriante e aspirando a pieni polmoni mi addentrai all’interno del grande giardino, ad ogni angolo notavo la rinomata fama del mio venerabile amico per i fiori, non c’era cespuglio da cui non sbocciassero innumerevoli qualità di orchidee, le bouganville erano alberi in fiore, di color rosso, arancio, viola pallido.
Una figura era piegata verso una fontana che riforniva uno stagno ricolmo di fiori di loto, senza voltarsi dovette avvertire la mia presenza e si levò :”Edmond, che il vento che ti conduce nella mia dimora si plachi nella serenità della bellezza della natura”. Era un uomo in apparenza fragile, di addome appena pronunciato nel corpo magro, grossi occhiali dalle spesse lenti coprivano gran parte del suo viso, il pizzetto della barba alla mandarino, piccoli baffetti ben curati e una lunga treccia tenuta da un nastro sulle spalle, la veste era gialla di lino pregiato e tinto e le sue mani sottili si erano unite all’altezza del mento in segno di rituale saluto.

Come sempre da quando ci conoscevamo, Maestro Ho mi condusse a visitare le nuove meraviglie di cui aveva arricchito la sua dimora, una stretta scalinata di pietra chiara saliva su un ponticello ad arco sopra un laghetto circondato da grandi alberi dalle foglie cadenti nell’acqua, piccole onde si espandevano accavallandosi al moto delle rosse carpe che vi nuotavano tranquillamente. Le osservammo a lungo appoggiati al parapetto e Maestro Ho ruppe l’incantesimo :”sento il contrasto nel tuo animo, come se tu non riuscissi a far passare le furie umane, fino a qui ti inseguono”.
“Amico mio”, risposi dopo qualche secondo di pensiero, “sai, forse non voglio, forse credo che le sensazioni, i sentimenti, anche quelli di furia, siano belli, li sento vivi, mi sento vivo”.
“Perché non e’ ancora il tempo Edmond”, rispose allegramente, accarezzandosi la barba con le dita della mano, “ma puoi suddividere le sensazioni e padroneggiarne almeno la metà, quella giusta”.
“Alcune cose sono mutate Maestro Ho”, ripresi con rispetto, mentre ci allontanavamo dal ponte e ci addentravamo della foresta, “ho molti nemici adesso nel luogo da cui provengo”.
“E ne cerchi sempre ragione Edmond? Dove ragione non e’ più?”
“Ho insegnato loro a seminare, mi hanno guardato con rabbia, mi hanno risposto che mai semineranno e io non capivo il perché, avevo compassione degli sguardi di pietra e per non fare del male promisi di arare i loro giardini”, mi accorsi che mi stavo infervorando e mi arrestai affinché Maestro Ho non concludesse che non sapevo controllarmi.
“E poi ti hanno detto che il tuo giardino non era tuo e dovevi darlo a loro e tu hai risposto che donavi il giardino e ti hanno risposto che non ti avrebbero permesso di farne un altro per te”, il mio amico accarezzò una enorme foglia di palma che scendeva fino a toccare il sentiero.
“Maestro Ho, insegnami come poter porre rimedio a cose che altri possano pensare io abbia loro fatto e di cui mi rimproverano”, la stradina tra le fronde della foresta scendeva verso il ruscello.
“Edmond, se fossero sinceri non ti porterebbero via il giardino, ti direbbero che anch’essi hanno deciso di farsi un loro giardino, proprio come te”, avevamo raggiunto uno spiazzo, inciampai su una radice, ma mantenni l’equilibrio.
“E’ la gelosia Maestro, vero? Il giardino e’ una parafrasi”, la mia voce aveva il tono dell’affermazione, il mio amico e io ci fronteggiavamo a pochi passi l’uno dall’altro.
“No”, rispose Maestro Ho, “odiano te, ti distruggono anche il giardino, ma esso sei tu”, fece un passo avanti, neppure me ne accorsi e l’istante successivo mi sentii volare due metri più in là.
Mi concentrai per affievolire il respiro che si era leggermente affannato, non volevo che il mio amico se ne accorgesse, osservai la sua mano ancora a mezz’aria, la mano che mi aveva sfiorato il petto con “la mossa del vento”.
“Ti sei fatto sorprendere Edmond, sai che ti ho messo alla prova, ti ho insegnato ad essere sempre in guardia, a non lasciarti mai offuscare dalle emozioni, la parola, la mente, il presente, piani differenti, mentre ti incammini su uno di essi, lascia gli altri sentieri liberi, guarda sempre e solo negli occhi il serpente, non commettere l’errore di seguire le mosse incongrue del suo corpo”.
Maestro Ho sorrideva, io no e lui se ne accorse e si rabbuiò senza comprendere, avanzai verso il punto in cui era in piedi, sotto l’albero, proprio sotto il ramo, sentivo un alito freddo attanagliarmi le ginocchia, lo scossi come fosse ghiaccio spezzato e urlai mentre la mia mano si avventava verso il petto del mio amico, lo sfiorava di taglio e lo scaraventava lontano fino a terra. Mi precipitai su di lui che si lasciò trascinare via di peso, aveva capito che doveva attendere la ragione del mio comportamento, il mio Maestro si fidava di me. Corremmo fino all’altro capo della radura e da li’ gli indicai il punto da cui lo avevo spostato, sul ramo dell’albero strisciava un nero, grosso, letale serpente, il muso era sceso silenzioso fino all’altezza di dove pochi istanti prima si trovavano le sue spalle.
Alzò le mani fino a toccarsi il mento, chinò il capo e poi mi guardò fisso negli occhi :”Maestro Edmond”, disse solo.
Ci accordammo per rivederci dopo il tramonto, a cena alla taverna della locanda, mi avrebbe raggiunto.

IV

“Come stai?”, chiesi e la donna dal volto di luna si volse verso di me, eravamo sul terrazzo che dava sulla giungla, pareva sorpresa, affaticata, non sorrise e rispose :”non male”. Si riscosse subito accorgendosi di come la guardavo, intimidito e allo stesso tempo desideroso di parlarle, “sai”, aggiunse in tono volutamente birichino, “la tua era una domanda difficile, intendevi come sto di corpo o di anima?”. Scoppiai a ridere di cuore, “non lo so, te lo chiedevo alla maniera dell’occidente a cui presto dovrò tornare, io sono uno straniero, me ne rendo conto e ho parlato senza pensare, solo perché volevo dirti qualche cosa, qualsiasi cosa”, confessai.
“Dici che sei uno straniero, vieni, guarda” e mi prese la mano e mi fece avvicinare ad uno dei lati del terrazzo che dava sulla città, “vedi un solo volto che sia uguale, un solo colore della pelle che sia lo stesso, guarda”. Osservai e quel brulicare di umanità si intendeva in mille lingue e dialetti, il cinese parlava con l’indiano, l’uomo con il copricapo arabo discuteva animatamente con un passante dalla pelle bianca e il cappello in stile coloniale.
“Straniero in questo luogo dell’oriente non e’ nessuno, perché siamo tutti stranieri, ogni persona e’ curiosa dell’altro, veniamo tutti da lontano, da destini originari differenti, e il nostro destino adesso e’ uno solo, costruiamo insieme qui, ma dimmi”, aggiunse facendosi così appresso che il suo sussurro mi avvolse, “che cosa e’ invece lo straniero in occidente?”
“Non saremmo così vicini in occidente, non potremmo, anziché curiosità c’e’ diffidenza e a volte scoppia il fuoco, la spada, chiunque e’ straniero”, strinsi i pugni e controllai il respiro e lei riprese, “non vuoi tornarci davvero, tu sei come noi, lo so, quella leggera catenina che porti al collo, la stella, che nascondi sotto la camicia, qui non e’ necessario, ci sono altri come te sull’isola e hanno costruito una casa di preghiera, a fianco di tante altre case di preghiera costruite da tanti altri” e mi allargò dolcemente i lembi scoprendo il piccolo ciondolo.
La luce del giorno calava all’orizzonte della baia e il suo volto di luna divenne splendente come il sole. “Tu sorridi con gli occhi e ti si illumina il viso”, non riuscii a trattenermi dal dirle, incantato nuovamente.
Si scostò da me e mi accorsi della sua gioia, “Maestro Ho mi ha parlato di te, mi ha raccontato del vostro primo incontro anni orsono, di come tu volessi impressionarlo e convincerlo che eri sincero e onesto e accettasti di farti scorrere addosso i serpenti azzurri nel Tempio delle Giade”, lei rideva di gusto e io ero a bocca aperta, “e mi ha raccontato di come nel tuo volto all’improvviso scomparve la paura di bambino e divenissi uomo e lui accettò di essere il tuo Maestro”.
“Mi insegnò a fissare gli occhi di ogni essere, mai le mosse del suo corpo, se amico avrei colto il sorriso, se nemico avrei compreso la sua azione”, le spiegai, così contento che lei si interessasse a me.
“E’ l’ora del tramonto”, il suo tono era di rammarico, “Maestro Ho ti attende per la cena”, chinò il capo e, prima che potessi proferire parola, scomparve all’interno della locanda.

V

“Ho ordinato il carico delle merci sulla tua nave, domani sera potrai così ripartire”, dalle parole del mio amico avvertivo la tristezza per un altro incontro così denso e così rapido, il cibo era succulento, stavo facendo letteralmente la festa alla salsa appena aspra che condiva la lunga pasta di riso, “non sei certo straniero con le bacchette”, osservò Maestro Ho riconoscendo la mia abilità, ero fiero di saper portare alla bocca un singolo chicco di riso con le levigate lunghe posate di legno, all’improvviso il mio sguardo divenne pensoso e lui se ne dovette accorgere perché rimase in silenzio, attendendo che fossi io a parlare.
Presi l’argomento talmente alla larga che le mie dita disegnarono sul tavolo cerchi concentrici come fossero onde nel mare, Maestro Ho si appoggiò sospirando comicamente alla spalliera della sedia e mi lanciò uno sguardo ironico, “Edmond, coraggio, chiedi”.
Spostai lo sguardo verso la fine del salone, lei era indaffarata con alcuni avventori al bancone, mi accorsi che non sorrideva a nessuno, era serissima, e mi resi conto con meraviglia che in effetti quel mattino aveva sorriso solo a me. La donna alzò lo sguardo e ci incrociammo e tutti e due lo scostammo nello stesso istante e poi io la guardavo quando mi pareva che lei non mi guardasse e sentivo che accadeva lo stesso da parte sua.
“Maestro, volevo approfondire lo studio della lingua di quest’isola”, affermai deciso.
“E non dirmi che hai qualche parola particolare che vuoi imparare!”.
Non badai alla dolce presa in giro e continuai :”occhi, come si dice occhi? Maestro Ho…”.
Non potevo nascondergli nulla e non volevo, “Maestro Ho, lei sorride con gli occhi e le si illumina il viso”, arrossii violentemente dicendo quelle parole. Il mio amico batté due volte le palme delle mani e bisbigliò una richiesta ad un cameriere dal turbante indiano che ricomparve dopo pochi istanti con un foglio di pergamena, un pennino e un calamaio di vetro.
La sua mano abile disegnò una lunga sequenza di caratteri, ciascuno rappresentava un significato figurato, :”ecco, tutto questo si pronuncia ‘wei siaodr yen dzin’… ‘occhi sorridenti’”.
Mi porse il foglio e mi spiegò :”piccola risata nell’ovale che contiene la pupilla”.
Raccolsi la piccola pergamena e con delicatezza la riposi nella tasca della camicia, il mio animo timoroso di non poter avere occasione di pronunciare quelle parole.

Ci salutammo calorosamente, molto tempo sarebbe passato fino al prossimo incontro, “Maestro Ho, nel mattino di domani, prima della partenza, vado nella giungla, voglio ricordare sulla mia pelle per il tempo in cui sarò lontano i luoghi dove mi hai insegnato”.
“Edmond, molti uomini si allontanano dalla giungla in questi giorni, gli abitanti dei villaggi dicono che ci sia una tigre”
“Rimarrò al riparo al di qua del torrente”, risposi allegramente, “così, se avrò fortuna, la potrò guardare negli occhi”
“E, se lei avrà fortuna, ci sarà un ponticello di frasche sul torrente”
“In tal caso Mastro Ho, non toglierò l’attenzione dai suoi occhi per sapere a che momento correre prima che si avventi su di me”
“So che saprai distinguere quali occhi fissare con la mente e quali con il cuore, quali terrai lontani e quali terrai vicini, addio Edmond”, portammo entrambi i palmi delle nostre mani al mento.

VI

Il suono ritmico delle cicale era la mia guida nel faticoso procedere attraverso la foresta pluviale, il cielo dell’alba si annunciava carico di nubi nere e lo scroscio tropicale mi colse mentre scalavo un anfratto di pietra, le mani scivolarono e i piedi non trovarono più appiglio nel terreno trasformatosi rapidamente in fanghiglia, fradicio e sudato mi sollevai a stento aggrappandomi ad una immensa foglia di palma, con essa mi ricoprii e attesi fino a che di colpo come era iniziata, la pioggia cessò. Il torrente era in piena e mi sedetti per prendere fiato su un tronco caduto, il folto della giungla era oscuro, respirai profondamente nell’umidità avvolgente e sentii un dolore all’orecchio, come di vuoto, gli abitanti della foresta avevano di colpo smesso di emettere le loro voci, il silenzio premeva come un masso. Uno sbuffo, poi uno più forte, poi una sequenza arrabbiata, infine un ruggito di animale in gabbia che mi raggelò il sangue nelle vene, una gigantesca ombra si mosse verso di me e un raggio di luce disegnò un corpo massiccio di tigre che mi osservava, gli occhi fissi, magnetici, un corpo di muscolatura diffusa, agilità e potenza invincibili. Ringraziai la sorte che i tronchi che avrebbero potuto fare da ponte sul torrente erano stati spazzati via dalla corrente e ricambiai lo sguardo, dovevo seguire gli occhi e non rimanere ipnotizzato dei movimenti dell’animale, in essi c’erano lampi di evidente desiderio di divorarmi, ma la tigre era spaventata dai gorghi tempestosi della barriera d’acqua.
Ero euforico, la tigre, ero a pochi passi dalla tigre, avrei voluto gridarlo al mondo.
La belva continuò a fissarmi e iniziò a girare in tondo, con cerchi sempre più larghi, voleva delineare un confine, come volesse sfidare me a saltare dall’altra parte e ad entrare nel suo territorio. Il ruggito si era trasformato in un sordo e continuo brontolio. Ci fronteggiammo per una mezz’ora, fino a che mi resi conto di dover ritornare, a malincuore.

La ragazza dal volto del sole e della luna non c’era quel mattino, provai una fitta di dispiacere, ero rattristato di non poter dirle le parole che mi ero preparato con cura, quelle che avevo letto e riletto dalla pergamena nella notte, dovevo toccare quel foglio, lo spostavo, lo riprendevo in mano, mi era divenuto prezioso. Avrei voluto raccontarle della tigre, dell’emozione, del suo nome che avevo cercato nel mio cuore. Uscii dalla locanda e mi avviai verso il porto a piedi, almeno un ricordo importante volevo portare con me in Europa di quel luogo, l’artigiano era ancora nel povero angolo della capanna vicina al molo, sotto lo sgabello di paglia intrecciata si erano accumulate le figure di peltro, guerrieri e cavalli, torri, alfieri, re e regine, creava figure per le scacchiere. Rimasi attonito, non avevo neppure il coraggio di chiedergli se erano in vendita, mi salutò e me ne porse una, la rigirai tra le dita, la accarezzai lungo le forme perfettamente modellate e levigate, chiusi la mano e la portai al cuore. L’uomo raccolse da sotto la sedia una pesante scatola e me la porse, la aprii e dentro c’era una collezione completa, scrisse sul selciato dei numeri e io annuii. Poco dopo quasi correvo per la felicità con quella scatola sotto il braccio.
Avrei voluto che lei vedesse quei pezzi d’arte, la tigre, i suoi occhi sorridenti, forse era meglio non salutarsi neppure, forse era inutile, nel mio occidente così avrebbero detto, che era inutile, senza sapere se ci saremmo rivisti ancora.

VII

I marinai erano pronti alla partenza, avevano terminato di riporre nella stiva il carico di riso, cotone, seta e spezie, il mare era increspato e di colore turchese, una vela si disciolse e io raccolsi l’ultima cima legata al molo, mi volsi per un ultimo sguardo e lei era lì.
I suoi capelli erano sciolti e ondeggiavano alla brezza, intrecciò una mano con la mia e i suoi occhi mi sorrisero e il suo volto si illuminò.
Le immagini si accalcavano nel mio animo e non trovavano la strada della voce, la tigre e i pezzi degli scacchi, fino a che mi calmai, gli occhi, dovevo fissare solo gli occhi, e le dissi : "wei siaodr yen dzin e’ per me il tuo nome, tu sorridi con gli occhi e ti si illumina il viso, occhi sorridenti”.
Mi abbracciò felice e mi carezzò lievemente il volto, non ci dicemmo “tornerai” e “tornerò”, ci fu sufficiente leggere il cuore dell’altro.

Era una notte di luna piena che illuminava la scia del veliero al largo dell’oceano indiano come raggio di sole, il pennino grattava veloce sulla pergamena :”Mia adorata Wei Siaodr Yen Dzin, corro verso l'orizzonte cavalcando le spume a fissare negli occhi il serpente, da oriente i tuoi occhi sorridenti illumineranno il mio cammino, fino a che mi stupirò della bellezza delle onde del mare, questa sarà la mia vita".

Roberto Mahlab

   
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