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 Vent'anni
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Gabriella Cuscinà
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Inserito - 19/04/2005 :  17:32:57  Mostra Profilo  Visita la Homepage di Gabriella Cuscinà Invia un Messaggio Privato a Gabriella Cuscinà
Vent’anni

Quella data resterà per sempre negli annali della famiglia!
Ti ricordi Ermenegilda? Ti avevo promesso che sarei venuta a trovarti e avremmo festeggiato insieme il tuo ventesimo compleanno. Invece il mio aereo rischiò di precipitare.
“Evviva zia! Davvero vieni qua da noi a Roma? ” Avevi esclamato così al telefono. Non avresti mai immaginato l’avventura strabiliante che mi attendeva.
Avevo preventivato di arrivare il giorno precedente al tuo genetliaco.
Tra l’altro, avrei viaggiato da sola, poiché mio marito è sempre troppo gravato dal lavoro e non può mai permettersi una vacanza improvvisa.
“Non preoccuparti, veniamo a prenderti all’aeroporto, zia.”
Secondo me, hai il carattere di chi vuol bene di nascosto. Infatti ti vedo assai poco, ti ascolto ancor meno al telefono, eppure quelle rare volte che ti sento, avverto nella tua voce alcunché di dolce e ritroso, melanconico e confidenziale. Una voce che tradisce un’anima sopraffatta dalla nostalgia della lontananza. La lontananza è come il vento, spegne i fuochi piccoli, accende quelli grandi.
Così recitava una canzone di Modugno, tanti anni fa.
Hai vent’anni però, e forse non la conosci.
“La conosco, sì che la conosco, ” starai dicendo per ora. Hai un papà che è stato un fan di quel cantante. Dunque ti avrà fatto ascoltare le sue canzoni.
Torniamo però al nocciolo della questione.
Avevo preparato solo una piccola valigia giacché mi sarei fermata pochissimo, sempre per non lasciare troppo solo il succitato marito alias tuo zio.
All’aeroporto, avevano subito comunicato sul tabellone delle partenze che il mio volo sarebbe partito in ritardo. Noi passeggeri già sbuffavamo. Seduta vicina ad una signora che aveva in braccio un bimbo, presi a chiacchierare e a fare complimenti al bimbo biondo.
Aspettammo per più di un’ora, poi finalmente annunziarono la partenza dell’aereo.
Credo che non proverò mai più il terrore che provai quella volta. E bada bene che io non ho la minima paura di volare, anzi dico sempre che preferisco l’aria condizionata dei velivoli a quella dell’auto dello zio.
Tu, Ermenegilda, non hai scelto di avermi per madrina poiché quando sei stata battezzata avevi solo pochi mesi di vita. Io invece ho accettato di averti per figlioccia. Allora, checché ne dica tuo padre, m’interesso di tutto ciò che ti riguarda, dei tuoi studi, dei tuoi amori, etc. etc.
Sto infatti scrivendo questa novella per te, che compi i tuoi splendidi vent’anni. Sono consapevole di scatenare le gelosie di tua sorella, ma lei è egualmente nel mio cuore. Quello che batto sui tasti del computer è solo frutto d’affetto. Tu accettalo come qualcosa dedicato esclusivamente a te. Vedrai, sarà il regalo più strano, più specioso e stravagante che avrai mai ricevuto.
C’imbarcammo quindi su quel benedetto aereo e restammo sulla pista un’altra ora. I passeggeri si alzavano, andavano , venivano, volevano sapere il perché ancora non si partisse.
Come Dio volle, furono accesi i motori e l’aeromobile cominciò a rullare sulla pista. Ero capitata accanto ad un anziano signore con gli occhiali sul naso, che si presentò dicendo di essere un funzionario statale in pensione. Era corpulento e con i capelli tutti bianchi. A guardarlo, si sarebbe detto savio ed ammodo. Mi presentai anch’io e cominciammo a conversare, ma ben presto mi accorsi che il mio compagno di viaggio era un oratore irrefrenabile, di quelli che sai quando iniziano e non sai mai quando finiscono di parlare. Non dava spazio per interloquire. Ancora una volta mi convincevo che il buon conversatore è solo chi sa ascoltare. Poi non la finiva più d’autocelebrarsi asserendo di essere il miglior giocatore di scopa del mondo.
“Io fumo e lei?” disse, “ accendo una sigaretta, ma tra poco arriverà un’hostess a dirmi di spegnere. Però nel frattempo n’avrò fumato già mezza. Ah ah ah ah.”
Risposi: “Non fumo, no. Nuoce gravemente alla salute, come dicono nella pubblicità.”
“Cara Monna Lisa venga fuori della cornice!” mi apostrofò, “ quelli della pubblicità prima affermano che faccia male, poi autorizzano lo Stato ad averne il monopolio!”
Intanto fumava come una locomotiva a vapore e nessuno sopraggiungeva, tanto che arrivò a fumare tutta quanta la sua sigaretta.
Ad un certo punto, udimmo uno scossone tremendo e, sull’aereo, ci fu un silenzio tombale. All’altoparlante, il comandante c’indicò di agganciare le cinture di sicurezza. Un altro strattone fu più violento di quello precedente.
Questa volta si udì un grido di terrore e qualcuno si alzò, subito soccorso da uno degli assistenti di volo. Il comandante informò l’equipaggio che doveva occupare i posti d’emergenza poiché eravamo entrati in una zona di perturbazione meteorologica. Infatti di lì a poco il velivolo iniziò a vibrare e i vuoti d’aria erano orribili. Qualcuno cominciò a vomitare e i bambini ad urlare.
Una ragazzina piangeva e diceva: “Nonna non la rivedo più la mamma!”
Il mio compagno di poltrona era improvvisamente ammutolito e guardava dinanzi a sé con gli occhi fuori dalle orbite. Io pensavo che da un momento all’altro mi sarebbe scoppiato il cuore perché l’impressione che avevo era proprio quella di precipitare.
“Comandante! Che cosa sta succedendo?” gridò qualcuno.
Intanto c’eravamo abbassati di quota, ma le vibrazioni proseguivano. I pianti dei bambini e le grida delle donne erano ormai divenuti un coro.
Un altro vuoto d’aria, più forte di quelli precedenti, m’indusse a dire le preghiere. Raccomandavo la mia anima al buon Dio e chiedevo di non soffrire e di morire subito. Però imploravo pure, innanzi tutto, di poter rivedere quel brigante di tuo zio. Poverino! pensavo. Come farà senza di me?
Improvvisamente fuoriuscirono, dagli appositi alloggiamenti, le maschere d’ossigeno. L’aereo scese in picchiata per abbassarsi ulteriormente di quota.
A questo punto, lo scompiglio fu generale. Gli occhiali del mio vicino erano schizzati sopra la sua testa e lui era aggrappato alla spalliera del sedile anteriore. Io invece ero abbarbicata ai braccioli della mia poltrona, con il capo premuto contro il poggiatesta. Ero tesa e stecchita al punto che mi avrebbero potuto mettere in salamoia.
La voce del comandante si fece udire un’altra volta e ci comunicò che saremmo atterrati a Napoli per ragioni di sicurezza.
Anche l’atterraggio non fu tra i migliori. Comunque ci sentimmo tutti salvi e ringraziammo Dio, felici di aver toccato terra. Difatti quando udimmo i motori arrestarsi, lo scroscio d’applausi fu unanime, frenetico e liberatorio. All’aeroporto di quella città ci comunicarono che avremmo dovuto attendere notizie per sapere come arrivare a Roma.
Ci sono dei momenti nella vita, in cui rimpiangiamo di non avere mai fatto una determinata cosa e, improvvisamente, ci pentiamo. Per me, quello era uno dei suddetti momenti. Difatti non avevo mai voluto comprare un telefonino affermando di non averne bisogno e che mi dava fastidio tenerlo nella borsa.
Sembrerebbe che io sia una persona fuori dal mondo e troglodita. Eppure è la verità. Non possiedo il cellulare. In quel preciso momento avrei tanto desiderato averne uno.
Dovevo telefonare! Assolutamente dovevo farlo e tutti gli apparecchi pubblici dell’aeroporto erano presi d’assalto. Non ce n’era uno libero!
Finalmente riuscii ad impadronirmi di uno dei telefoni e chiamai tuo zio. Era un po’ in ansia perché non riusciva a capire cosa fosse successo. Glielo spiegai e si agitò di più quando mi sentì dire che eravamo a Napoli.
Poi dovevo telefonare a voi.
Tuo padre, appena seppe dove mi trovavo, esordi: “Ti veniamo a prendere a Napoli. Non muoverti dall’aerostazione e rimani nei saloni d’attesa.”
Provai a dissuaderlo poiché il tragitto Roma – Napoli non è una passeggiata.
Insistette e fu irremovibile.
Rimasi lì a passeggiare e a bere caffè. Credo di non avere mai bevuto tanti caffè nella mia vita come quella volta. Facevo conto che entro due ore, due ore e mezza, sareste arrivati. Invece, niente. Erano trascorse già quattro ore e di voi, neppure l’ombra.
Si suole dire che le contrarietà non giungono mai da sole. Infatti, avevate forato sull’autostrada, non una, ma due ruote.
In questo momento starai pensando che le mie storie siano sempre un po’ catastrofiche. Devi sapere che in ogni narrazione che si rispetti, ci deve essere sempre un ostacolo che impedisce ai protagonisti di realizzare i loro desideri.
Era ormai sopraggiunta la notte.
Non volevo neppure telefonare allo zio per evitargli quell’ulteriore allarme.
Chiamai invece te al cellulare, nella speranza che lo avessi al seguito.
Ti ricordi, Ermenegilda, mi hai risposto quasi urlando: “Zia! Sapessi! Abbiamo bucato due gomme e stiamo aspettando quelli dell’ACI.”
Devo dire che non si dorme bene sulle poltrone dell’aerostazione di Napoli. Dovrebbero tenere conto di renderle più comode e confortevoli. D’altra parte, il pullman per Roma era già partito e non potevo consigliarvi di tornare indietro, non appena riparate le ruote.
Con il personale delle pulizie avevo ormai familiarizzato e qualcuno di loro ogni tanto m’incoraggiava, scherzando: “Non si preoccupi, signora, siamo a novembre, male che vada festeggia con noi il Capodanno.”
Ad un certo punto, cominciarono ad arrivare i passeggeri dei voli notturni.
Vicino a me si venne a sedere una signora che, a tutta prima, mi parve conoscente. Anche lei prese a guardarmi e dopo un po’ esclamò:
“Ma noi ci conosciamo! Siamo state compagne di liceo. Tu sei………”
Era difatti una signora della mia stessa età, che riconobbi come quella compagna che aveva avuto un flirt con tuo padre. Avevo, allora, diciotto anni ed avevo presentato quella ragazza a mio fratello. Fu una storia passeggera tra i due, ma ricordavo ancora con piacere quella compagna, per tutte le esperienze scolastiche vissute insieme. Era divenuta una signora grassoccia e senza alcuna attrattiva. M’informò del fatto che insegnava a Napoli, che stava andando a Stoccolma per una vacanza, di essere divorziata e di avere un figliolo ormai grande e laureato. Anch’io le parlai di me e, nel frattempo, pensavo che se in quel preciso momento foste arrivati voi, ci sarebbe stato l’incontro tra i due ex fidanzatini. Invece lei guardò l’orologio e si alzò salutandomi, perché stava per partire il suo aereo.
Dal telefono pubblico ti richiamai e m’informasti che avevate finalmente risolto il problema ed eravate ripartiti.
Ormai albeggiava quando scorsi il tuo visetto in fondo al salone. Avevi gli occhi stanchi, ma ancora vigili ed alla ricerca di me. Ruotavi il capo tutt’intorno e ti giravi a destra e a manca. Destavi la sensazione che deve fare al naufrago l’avvistamento della terra.
Fra i vari quesiti che ti sarai posta, dinanzi a quest’insolito dono, ce ne sarà uno del tipo: “Ma che novella è uno scritto che pare una lettera?”
Bene! Ricordati che anche gli antichi scrittori latini usavano talora lo stile epistolare, nelle loro opere.
Mi vedesti da lontano e spalancasti le braccia. Finalmente l’incubo era finito!
Ci abbracciammo e non trovai niente di meglio che esclamare:
“Tanti auguri Ermenegilda!”



Gabriella Cuscinà

   
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